Beh, come ti lavo il parabrezza è un’affermazione un po’ esagerata o ottimista, dipende dai punti di vista! Perché se paragoniamo la funzionalità e l’efficacia di un sistema lavavetri anni ’40/’50 rispetto a quelli dei giorni nostri la differenza è abissale. Mi riferisco in particolare a quei getti d’acqua che sbucano (soprattutto quando sei incolonnato in coda o in autostrada) dalla macchina che ci precede e che magicamente finiscono sui nostri di vetri, che magari erano già stati lavati di fresco finendo per macchiarli tutti. Beh, scordiamoci una cosa del genere! Negli anni ’40/’50 sicuramente la funzionalità e il risultato finale erano molto diversi da come ci immaginiamo oggi.
Quello su cui mi voglio concentrare è, però, non tanto la resa dei sistemi adottati, ma i contenitori dove stoccavano la riserva di acqua. Noi siamo abituati alle classiche vaschette di plastica rigida di varie forme posizionate nei pertugi più assurdi all’interno del vano bagagli, riempite di liquidi appositi con un sensore che ti avvisa quando il livello è basso.
Niente di tutto ciò in passato! Io non conosco i sistemi di tutte le auto, ma già nelle due che ben conosco i sistemi sono molto particolari.
Nella Tbird del ’56 l’acqua era stoccata in un’apposita sacca rossa, vagamente simile a una borsa dell’acqua calda, fissata su un lato del vano motore e collegata tramite tubicini ad una pompetta che veniva azionata direttamente dal guidatore col piede. Questa consentiva di spruzzare l’acqua sul parabrezza, mentre i tergicristalli erano azionati da un motorino che, molto ingegnosamente, sfruttava la depressione creata dal motore (tramite tubazioni che arrivano direttamente dalla pompa del carburante), per farli muovere. Per i tergicristalli, sulle auto che abbiamo, non esiste regolazione di velocità: si spostano a destra e sinistra sempre allo stesso modo indipendentemente dall’intensità della pioggia.
Nella Buick Roadmaster del ’49 (il cui sistema di funzionamento del sistema è simile) è ancora più particolare perché il contenitore di riserva è costituito da un grande vaso di vetro stile “Quattro Stagioni Bormioli” che può contenere all’incirca un paio di litri d’acqua con un coperchio metallico avvitato e un cestello che la fissa in posizione nel vano motore; sul coperchio è posizionato un depressore con un tubo metallico sul quale si fissa il tubetto che porta l’acqua fino al parabrezza.
E voi conoscete altri sistemi particolari oltre a questi?
Chi di voi ha mai sentito nominare Brooks Walker? Beh, per chi come me non ama per niente i parcheggi ad “S”, soprattutto quando c’è la fila di auto dietro che aspetta di passare o la gente al bar che ti osserva aspettando l’inesorabile fallimento della manovra, dovrebbe essere pressoché un mito.
Si tratta di un inventore molto attivo, nato nell’800, che brevettò più di 250 invenzioni, ma divenne famoso soprattutto per una in particolare: intorno agli anni 30 del ‘900 inventò la cosiddetta “quinta ruota”.
L’utile supporto alla guida fa un po’ da precursore ai moderni sistemi di guida assistita: quelli, per intenderci, in cui il pilota deve solo pigiare un bottone e la macchina sceglie il parcheggio più adatto in base alle proprie dimensioni e ci si infila pure da sola! L’invenzione è sicuramente più rudimentale, ma comunque utile, soprattutto in un periodo in cui le auto erano grandi, pesanti e per sterzare il volante, soprattutto da fermi, ci voleva una forza notevole.
L’invenzione sfrutta la ruota di scorta (la quinta ruota appunto) che prima di affrontare la manovra, scende dal suo supporto posto sul paraurti posteriore fino a toccare terra, solleva la parte posteriore del veicolo e lo fa ruotare verso la parte esterna del parcheggio così da liberarlo dalla posizione in cui si trova e agevolare la manovra d’uscita (o anche quella per entrare in un garage stretto o scomodo).
Come si può vedere in un video dell’epoca pubblicato su YouTube, Brooks testò la sua invenzione su una Packard 4 porte presumibilmente del 1933: si vede l’auto che si sposta sia verso destra che verso sinistra grazie alla quinta ruota che la fa ruotare agevolmente. L’invenzione fu brevettata ufficialmente solo anni dopo, intorno al 1938, e fu anche presentata a Detroit. Negli anni ’50 venne ripresa sempre da Brooks che la migliorò: in un altro video, sempre pubblicato su YouTube, questa volta si vede una Packard Cavalier del 1953 che grazie ad una serie di ingranaggi e una pompa idraulica azionati semplicemente premendo un pulsante si sposta ruotando la parte posteriore; ma, di nuovo, il mondo dell’automobile gli chiuse le porte in faccia e disse di no alla sua invenzione.
Egli si dedicò alla sua invenzione, continuando a migliorarla fino agli anni 70, quando morì senza aver mai avuto la soddisfazione di vederla realizzata sul mercato.
Per quale motivo non prese mai piede se effettivamente poteva essere molto utile? In parte, probabilmente, perché trovare alloggiamento per la ruota di scorta nel paraurti posteriore non era sempre facile; il primo prototipo il meccanismo occupava buona parte del bagagliaio e, in alcuni modelli di auto i costruttori sarebbero stati anche costretti a spostare la posizione del serbatoio per trovare lo spazio necessario ad alloggiarlo. In secondo luogo alcuni sostengono per il costo: all’epoca la cifra per montare questo ausilio si aggirava intorno ai 175$, indicativamente 1800/2000$ attuali; una cifra non da poco che i costruttori di auto ritennero eccessiva e che sarebbe stata controproducente per le vendite.
Sicuramente se l’invenzione avesse preso piede sarebbe stato un bell’aiuto alla guida anche in tempi in cui la tecnologia come noi la intendiamo ora, non era neanche lontanamente stata inventata!
Perché abbiamo scelto proprio questa macchina? E’ una domanda che spesso ci fanno, anche è soprattutto perché la bellezza è soggettiva, quindi ciò che per noi era bello e valeva la pena di essere acquistato non è detto che lo sia anche per altri.
In primis è stato per interesse personale: è sempre stata una macchina che abbiamo amato. Una passione particolare ci lega alle auto fine anni ’40 e anni ’50. I cofani imponenti, le griglie massicce, il doppio vetro del parabrezza spesso accompagnato dal “sunvisor” (ovvero quell’aletta parasole in metallo applicata sulla sommità del parabrezza che tante auto di quegli anni avevano di serie o come optional), la profusione di cromature. Le auto di quegli anni sono spesso imponenti, ma allo stesso tempo hanno linee affusolate che fanno sembrare l’auto in movimento anche da ferma.
Mi ricordo che già da bambina, quando guardavo il film “Rain Man” con Dustin Hoffman nel quale una dei protagonisti era proprio l’imponente Buick Roadmaster del ’49, in questo caso versione cabrio (che tra l’altro proprio poco tempo fa è andata all’asta), ne ero profondamente affascinata.
La nostra è una Buick Roadmaster Riviera due porte hard top (76R). Cos’ha di speciale questo modello? Intanto è la prima vettura hard top della storia, ovvero senza montanti delle portiere. L’assenza di questi elementi alleggerisce tutta la fiancata della macchina rendendola armoniosa. Altra caratteristica peculiare del restyling del ’49 fu l’introduzione dei “venti ports” ovvero le prese d’aria laterali di forma tonda; sulla Roadmaster ne sono stati installati 4 per lato, mentre su Super e Special solo 3. Inizialmente, proprio nei primi mesi di produzione, questi avevano la funzione reale di ventilazione del vano motore, ma ben presto la loro funzione rimase puramente estetica poiché vennero chiusi.
La macchina monta un motore Fireball 320 c.i. con 150 hp, 8 cilindri in linea e punteria idraulica; il cambio automatico Dynaflow viene montato di serie su questo modello. Altre caratteristiche interessanti sono i sedili ed i vetri azionati da un meccanismo elettroidraulico e l’autoradio con la possibilità di memorizzare 5 stazioni radio.
La nostra, in particolare, è stata prodotta nei primi mesi del ’49 come dimostrano le modanature laterali che presentano una curvatura, mentre quelle montate nei mesi successivi di produzione sono diritte.
Ma, più in generale, quali sono i motivi che ci spingono a scegliere un modello di vettura cui dedicare tanto tempo e fatica rispetto ad un altro?
Come detto ci sono fattori puramente “estetici” o affettivi: dobbiamo sempre, però, tenere conto di quella che sarà la destinazione finale della nostra macchina. La prendiamo per tenerla? La prendiamo per fare un restauro accurato o per darle una rinfrescata e poi venderla perché il nostro intento è massimizzare un guadagno? In base a quello che è il nostro scopo finale ci saranno alcuni parametri da tenere in considerazione: il costo del restauro andrà a superare il valore della macchina? Se vogliamo venderla e ottenerne un profitto è chiaro che allora non avrà senso investire su quel modello poco profittevole, ma ci dovremo orientare su qualcosa di più cercato o ricercato, a seconda del pubblico cui vorremo rivolgerci. Potremo anche scegliere tra modelli più comuni e particolarmente amati, come la Mustang, ad esempio, ma dovremo cercare un modello che abbia un costo contenuto e che non abbia bisogno di particolari cure perché di Mustang disponibili sul mercato ce ne sono già parecchie e a tutte le cifre. Oppure ci potremo orientare su un modello più particolare, di nicchia magari, tenendo bene a mente che in questo caso i costi del restauro si alzeranno e spesso, più un modello è raro e vecchio, più sarà difficile trovare i pezzi. Se, invece, decidiamo di comprare un’auto semplicemente perché ci piace e vogliamo tenercela, allora saremo liberi di decidere quale di budget dedicarle poiché sarà esclusivamente una questione affettiva e non di profitto.
Ed ora alcuni dati tecnici della nostra Buick:
Anno di produzione: 1949
Prezzo: $3,201
Peso: 4418 lbs | 2003.971 kg
Lunghezza: 214.1 in | 5439 mm.
Motore: Fireball 5247 cc | 320.2 cu in. | 5.2 L.
Cambio: Dynaflow, automatico 3 marce
Gomme: 8.20 x 15
Produzione totale anno 1949 Serie 70 Roadmaster: 86,131 unità
Produzione totale anno 1949 Serie 70 Roadmaster 2 porte hard top (76R): 4,314 unità
Il diner come noi lo conosciamo rientra nell’immaginario collettivo come uno dei simboli della cultura americana. Ma quando nascono i diner e sono sempre stati come oggi li conosciamo?
Assolutamente no! I primi diner nulla avevano in comune con i locali belli e colorati, in stile tipico anni ’50 con il pavimento a scacchi ed i divanetti colorati e un bel jukebox che suonava le canzoni dell’epoca che tutti noi conosciamo. Le prime “tavole calde”, se così li vogliamo definire, nascono verso la fine dell’800 come “carri mobili” tirati da cavalli che si spostavano con lo scopo di sfamare i lavoratori che svolgevano turni serali o notturni per fornire loro cibo a basso costo in orari in cui i classici ristoranti erano già chiusi (e comunque erano anche molto più cari); il cibo era spesso di bassa qualità ed economico, servito al di fuori del locale, senza alcun tipo di comodità.
Il successo di questi carretti mobili fu talmente grande che alcune città, visto l’affare, decisero di regolamentarne orari di apertura e li resero fissi obbligandoli in determinate posizioni sul territorio; i carretti di legno vennero sostituiti da vecchi vagoni del treno dismessi, che non consentivano comunque la permanenza degli avventori all’interno; il cibo veniva consumato al di fuori del vagone, mentre dentro trovava posto solamente la cucina.
Un salto di qualità avvenne a partire degli anni ’20 grazie anche all’emancipazione femminile, che portò la donna non solo a votare, ma anche a lavorare (e, quindi, ad uscire dalle mura domestiche nella quale era da sempre stata rinchiusa) e ad avere le stesse esigenze degli uomini; se prima la prerogativa di consumare dei pasti fuori casa era solamente degli uomini, adesso anche le donne lavoratrici ne avevano bisogno. I diner cambiarono aspetto: si ingrandirono, offrendo anche dei posti a sedere su comodi divanetti; si abbellirono curando maggiormente l’arredamento; i cibi offerti cambiarono andando a somigliare di più a quelli tipici dell’alimentazione casalinga americana; ed, infine, spesso vennero dotati anche di bagni, che negli anni passati non erano presenti.
Con l’avvento delle autostrade e lunghi e sempre più frequenti spostamenti in auto i diner ebbero un vero e proprio boom: per essere notati dagli automobilisti di passaggio cominciarono ad assumere il tipico aspetto dei locali che noi conosciamo, con esterni scintillanti rivestiti di acciaio inossidabile che brillando al sole li rendeva visibili da distante; ampie vetrate lungo tutto il perimetro del locale; pavimenti a scacchiere bianche e nere con divanetti, sedie e sgabelli rivestiti di vinile colorato in netto contrasto con i pavimenti; grandi insegne di neon colorati ad attrarre chi passava. Il bancone ampio consentiva agli avventori di fretta di consumare un pasto servito direttamente li molto velocemente, mentre i tavoli erano destinati alle famiglie che volevano consumare un pasto abbondante, a basso costo e tipicamente americano: piatti tipici erano gli hamburger accompagnati da patatine fritte, il polpettone, i milkshake e tutto ciò che è considerato “comfort food”.
E’ difficile trovare una corrispondenza dei diner americani nella nostra cultura italiana: nulla hanno a che fare con le nostre tavole calde dove non si respira comunque quell’aria famigliare e tipica che c’è nei diner; anche le nostre rosticcerie, che spesso sono solo da asporto, non si avvicinano come concetto a quello del diner, per non parlare degli autogrill dove il cibo è assolutamente impersonale così come il servizio.
Penso che il diner, più che un “ristorante a basso costo” vero e proprio, sia più la rappresentazione concreta di un concetto di vita americano, quella sorta di prìatriottismo tipo degli Stati Uniti in cui si esalta la loro cucina, seppur poco sana e ricca di grassi e condimenti, e quell’unione delle persone che vogliono comunque sentirsi in famiglia anche se distanti da casa in un ristorante sconosciuto.
A partire dagli anni ’70 , con l’avvento dei fast food, i diner hanno avuto un inevitabile declino: alcuni ancora sopravvivono come “reperti storici” di uno stile di vita ormai tramontato; altri sono sorti come catene di ristoranti standardizzati in tutto il paese e anche all’estero, ma perdendo quella tipicità che contraddistingueva i veri diner di quegli anni d’oro.
E se siete in procinto di andare negli Stati Uniti e volete immergervi nell’atmosfera di uno di questi locali ecco un interessante elenco di quelli storici ancora funzionanti sparsi in tutto il paese.
E’ una di quelle domande che spesso ci siamo sentiti fare, ma che ancora più spesso ottengono risposte abbastanza confuse. I documenti fondamentali per l’ importazione sono 3 e questi non possono mancare: il title, la fattura di vendita e la bolla di sdoganamento
Il title è il documento che trova un corrispettivo nel nostro certificato di proprietà; è un documento cartaceo nel quale sono riportati i dati del veicolo come il VIN , che è il telaio, l’anno di immatricolazione, marca e modello, il numero di targa (se presente, altrimenti riporta il numero di targa prima della radiazione) ed il peso. Vi è poi una parte in cui sono indicati il nominativo dell’ultimo proprietario con l’indirizzo di residenza.
Il secondo documento fondamentale è la fattura di vendita: questa può consistere anche in un semplice scritto firmato da venditore ed acquirente nel caso che chi venda sia un privato e non abbia modo di emettere fattura. Bisogna fare attenzione che in tale scrittura vengano indicati tutti i dati del venditore, dell’acquirente e del veicolo; controllate attentamente che il telaio riportato sia lo stesso effettivamente riportato sul title e, a sua volta, stampigliato sul veicolo stesso; questa corrispondenza è fondamentale altrimenti non risulterete i proprietari del veicolo che state acquistando. Se, invece, vi appoggerete ad una ditta importatrice, soprattutto nel caso in cui facciate pagare in contanti direttamente in loco il venditore, sarà la ditta ad essere l’acquirente del mezzo e, a sua volta, lo “rivenderà” a voi alla stessa cifra pattuita col venditore da voi emettendo regolare fattura: anche in questo caso verificate attentamente tutti dati riportati in essa.
Ultimo documento necessario è la bolla di sdoganamento, ovvero il documento che viene rilasciato dalle autorità doganali una volta disbrigate le varie pratiche per far entrare qualsiasi tipo di merce in Europa; anche in questo documento prestate attenzione che i dati riportati siano corretti e corrispondano a quelli della vostra macchina.
E se dovesse mancare uno di questi documenti? Per quel che riguarda la fattura o la scrittura tra privati normalmente non ci sono problemi; chi vende questo tipo di veicoli sa benissimo che è necessaria e pertanto il tutto viene fatto senza problemi; se si tratta di una ditta, poi, è tenuta a rilasciare regolare fattura di vendita; quindi, se non ve la volesse rilasciare, lasciate perdere tutto e non fidatevi. La bolla di sdoganamento viene fatta in automatico ogni volta che della merce viene sdoganata, pertanto dovete solo richiederla se vedete che non ve l’hanno fornita.
Discorso diverso per il title: questo è fondamentale; so che ci sono persone che hanno acquistato senza questo documento, ma dovete sapere che le difficoltà per ottenerne una copia sono notevoli (soprattutto vista la distanza fisica fra Italia ed America e l’impossibilità di recarsi di persona negli uffici preposti) e immatricolarla in Italia senza questo documento diventa un’impresa titanica. E’ quindi sempre sconsigliato acquistare un veicolo senza il title? In linea di massima si se non vogliamo crearci problemi ulteriori rispetto a quelli normali che già ci sono in fase di immatricolazione. Ne potrebbe valere la pena, dal mio punto di vista, solo ed esclusivamente se il mezzo che stiamo per acquistare è un mezzo di particolare rilevanza storica e rarità e che ne valga la pena di essere recuperato. Se, invece, stiamo acquistando un’auto comune, come può essere la classica Mustang o la Tbird stessa di cui ne sono stati fatti tantissimi esemplari e molti sono ancora in circolazione, allora continuerei la ricerca orientandomi su un veicolo che abbia tutto quello che serve per un’agevole importazione.
Ci tengo a precisare che in questo post mi sono limitata a raccontare quella che è stata la mia esperienza personale nell’importare due auto americane e non vuole essere assolutamente un “dictat” su quello che debba essere fatto o meno: nota bene che si tratta di due auto storiche, quindi non posso affermare nulla di preciso in merito all’importazione di auto moderne perché non ho la benché minima idea se la procedura sia la stessa o meno.
Nell’immagine sottostante un esempio di title originale.
Che cos’è il “Continental Kit”? Per me rappresenta una delle caratteristiche più belle ed anche più peculiari della Ford Thunderbird del 1956. Con questo nome un po’ particolare si va a designare semplicemente la ruota di scorta che è posizionata sul paraurti posteriore della macchina al posto che nel bagagliaio, dove normalmente veniva posizionata in quegli anni.
La Ford Thunderbird del 1956 ha proprio come sua caratteristica l’avere la ruota di scorta inserita in un apposito “contenitore” di metallo verniciato esattamente come la macchina fatto a “ciambella” all’interno del quale viene messa la ruota di scorta; il pneumatico in sé è coperto da questo guscio, se così lo vogliamo definire, e solamente il cerchio è scoperto. Il guscio appoggia su un alloggiamento appositamente creato nel paraurti proprio al di sopra della targa posteriore ed è leggermente inclinato verso la parte anteriore della macchina.
La motivazione che ha spinto all’introduzione di questo kit è stato sicuramente un fattore estetico, in quanto la ruota in quella posizione rende ancora più speciale e caratteristica una macchina del genere. Certo a livello di comodità è tutto un altro discorso: se devi fare benzina, poichè il tappo del serbatoio si trova direttamente dietro al continental kit in posizione centrale, è necessario spostarlo in avanti sbloccando una piccola leva che in marcia lo tiene saldo in posizione. Vogliamo parlare della complessità del cambiare una ruota in caso di foratura?! Sinceramente se mai dovesse succedermi non utilizzerei mai quella ruota! Diciamo che la delicatezza della verniciatura non rende l’operazione semplice poiché bisogna estrarre la ruota togliendola senza fare danni, che è un’impresa abbastanza impossibile.
Pertanto io la vedo più come una fatto estetico che di utilità vera e propria; tanto che, già nel 1957 è stata nuovamente rispostata nel bagagliaio, la cui capienza comunque non viene compromessa in ogni caso. Qualcuno sostiene che sia stata spostata nel bagagliaio non tanto per praticità, ma per questioni di stabilità della macchina; onestamente non ho mai notato problemi di questo tipo alla guida.
Il Continental Kit è diventato molto popolare negli anni 50 e 60 e veniva considerato un simbolo di lusso e sfarzo: molte auto lo montavano originale, ma molte altre sono state dotate di kit aftermarket. Mia opinione personale è che questi kit, spesso e volentieri, rendano la macchina meno armoniosa di quello che vorrebbero perché si devono andare ad aggiungere al paraurti posteriore, al posto di trovarvi una loro naturale collocazione come per la Tbird del ’56, pertanto rischiano di allungare in maniera sproporzionata la parte posteriore della macchina rendendola poco aggraziata.
Nelle foto sotto: 1 – continental kit; 2 – particolare del continental kit (solo il cerchione è visibile); 3 – la levetta che lo tiene in posizione mentre si guida e che va sbloccata per spostarlo in avanti.
Affascinati da questo mondo per noi sconosciuto, un paio di anni fa abbiamo acquistato il nostro primo jukebox, un Seeburg Regency FC1 del 1973. Trovato da un rigattiere in condizioni di abbandono e fermo da anni, era però completo di ogni sua parte. Ci siamo fatti convincere ed in una giornata piovosa l’abbiamo portato a casa. L’intento di questo post non è di spiegare nel dettaglio come sia stato restaurato, cosa che verrà spiegata nella sue fasi peculiari in altri post, ma vuole solo essere una sorta di presentazione di questo jukebox.
Il Regency viene troppo spesso bistrattato; prima di tutto perchè è il classico jukebox anni 70, chiuso, senza meccanismo a vista; in più questo non è nemmeno particolarmente colorato. Anzi, di colorato non ha proprio nulla ed il suo aspetto da chiuso (la parte superiore si richiude si livella con il vetro superiore) gli è valso il soprannome di “cassapanca” perchè da chiuso sembra un parallelepipedo nero di aspetto un po’ incombente. Però, forse, è stato proprio questo suo aspetto pulito e lineare che ci ha attratto. Le luci che sono messe in apparente ordine casuale sul pannello anteriore e su quello superiore più piccolo e pieghevole sono di un giallo dorato e creano un particolare effetto di ” allargamento/restringimento” (come si può vedere in questo video sul nostro canale) a seconda della posizione dell’osservatore, dato da un sottile inserto metallico verniciato di nero e forato che consente alla luce di filtrare e crea questo particolare effetto. Non a tutti piace, forse perchè da un jukebox anni 70 ci si aspetta più colore; ma questo era un jukebox destinato a locali più eleganti come pianobar o ristoranti.
Il nostro arrivava dal Belgio, come dimostravano le scritte in francese dei crediti e delle selezioni e le etichette ancora presenti indicavano che probabilmente era stato usato per l’ultima volta nei primi anni ”90.
Non aveva nemmeno le chiavi ed era chiuso, quindi già per aprirlo abbiamo dovuto faticare un po’, anche perchè essendo il primo che vedevamo, non sapevamo dove mettere mano senza far danni.
Una volta aperto nel giro di una mezzora siamo anche riusciti a risvegliarlo dal suo lungo sonno e a farlo suonare, ma è durato bene poco perchè alcune parti di gomma, ormai secche per gli anni di inutilizzo, si sono rotte quasi subito impedendo al motore di funzionare (per fortuna ci sono diversi siti sui quali è possibile trovare materiali di consumo senza grossi problemi).
Il jukebox comunque era da restaurare, ma funzionante nel complesso; era tutto da pulire perchè incrostato da olii lubrificanti che negli anni si erano seccati e da fumo che si era appoggiato in anni di utilizzo in locali pubblici.
C’era da decidere come si voleva procedere, se semplicemente dando una risistemata generale o fare un restauro completo; la prima opzione era la più rapida e semplice, ma quella che probabilmente avrebbe dato maggiori problemi nel lungo termine.
C’è da dire che la maggior parte dei problemi che hanno i jukebox nascono proprio dal fatto che lo sporco incrostato di anni impedisce il libero movimento alle parti meccaniche andando, di volta in volta, a creare intoppi di natura differente.
Per farla breve l’abbiamo letteralemnte sventrato. Tutte le pareti del mobile sono state separate l’una dall’altra, levigate, verniciate con una mano di fondo e più mani di nero lucido bicomponente per carrozzeria, che garantisce durata nel tempo.
Le parti interne sono state smontate: il motore ripulito da ogni traccia di incrostazioni, controllato nei movimenti e regolato. I cablaggi ribattuti, riparati dove era necessario e, anche loro, ripuliti dallo sporco di anni che impediva di vedere i colori dei singoli cavi.
L’amplificatore è stato controllato ed, essendo famoso per dare problemi, è stata fatta una modifica ormai largamente diffusa che impedisce che uno dei due canali si bruci anche dopo un breve lasso di tempo di utilizzo.
Le cromature erano a posto e andavano solo lucidate.
Unico problema, risolto grazie ad un caro amico che ha messo a disposizione le sue capacità e una stampante 3d, erano i porta lampadine e la griglia dei tasti che, essendo in plastica e a contatto con il calore delle lampadine ad incandescenza, si erano letteralmente sbriciolati. Ricavando da ciò che era rimasto un’immagine 3d il più accurata possibile ed andando a modificarla è stato possibile stampare queste parti e andare sostituirle (quelle che si trovavano originali online erano comunque vecchie e usurate e non aveva senso sostituirle con quelle avendo quest’altra possibilità).
Una volte rimontato ha cominciato a suonare fin da subito: è un jukebox che può piacere o no, ma sicuramente messo nell’ambiente giusto, con il giusto arredamento crea un’atmosfera elegante e rilassante e anche il suono è molto buono ed avvolgente.
La prima domanda che molti si fanno è dove cercare una macchina, se in Italia/Europa, dove la scelta di modelli è limitata e il costo è piuttosto alto oppure negli Stati Uniti, dove la scelta di marche e modelli è infinita a dei prezzi nettamente più accessibili, ma con tutti i rischi correlati alla distanza e all’impossibilità di visionare il veicolo di persona.
Decidere come procedere è sempre una scelta molto personale e dipende da diversi fattori, ma se vogliamo cercare la macchina degli Usa la prima cosa su cui dobbiamo riflettere è se si ha “il coraggio” di procedere da soli assumendosi il rischio delle proprie decisioni, ma andando a risparmiare una parte di soldi che si possono investire successivamente nella fase di restauro. Oppure, nel caso non ce la sentissimo, se contattare una ditta specializzata che ci darà una maggiore garanzia su quanto andremo ad acquistare, ma vorrà giustamente essere pagata per ogni servizio offerto.
Un altro fattore molto importante da non trascurare è la conoscenza della lingua inglese: per poter portare avanti una trattativa bisogna conoscere la lingua, perché è vero che gli americani sono disponibili – per quella che è stata la nostra esperienza personale – ma bisogna comunque capire quello che dicono e saper chiedere le giuste informazioni in modo da non ritrovarsi con brutte sorprese una volta arrivata a casa la macchina.
Una volta deciso come procedere si apriranno due scenari differenti: in un primo scenario sarà l’agenzia prescelta che si occuperà di trovare il veicolo richiesto, verificare in loco la validità del mezzo e la presenza della documentazione necessaria per l’espatrio; si occuperà di procedere con il pagamento direttamente al venditore (molti accettano solo contanti, pertanto qualcuno dovrà andare di persona a versare il dovuto); successivamente preparerà i documenti per l’esportazione, si occuperà della fase di viaggio vera e propria, dello sdoganamento . e della consegna a casa se si è scelta questa opzione (se la macchina fosse marciante e targata si potrebbe andare a ritirare direttamente di persona e guidarla fino a destinazione dopo aver stipulato un’assicurazione per poter circolare).
Il secondo scenario, quello in cui la ricerca sarà fatta da noi, è in realtà uno scenario “misto”, se possiamo così definirlo: nel senso che la prima fase di ricerca sarà tutta sulle nostre spalle; ma si arriverà al punto in cui, trovato il veicolo da acquistare bisognerà comunque appoggiarsi a una qualche ditta che ci aiuti nel pagamento e nell’importazione.
Per il pagamento non sempre è necessario perchè dipende molto dalla persona che ci troviamo dall’altra parte: di base gli americani sono gentili e disponibili, ma diffidenti. Quasi impossibile fargli accettare come pagamento un bonifico bancario che da noi è il metodo più comune, ma per loro è visto come un rischio (casi di furto di identità). Lo stesso discorso vale con Paypal: di sicuro non si accollano il rischio di vendere un bene del genere e vedersi poi aprire una controversia a migliaia di km di distanza. Forse qualcuno potrebbe accettare un pagamento tramite Paypal come “scambio di denaro tra parenti -amici”, ma in tal caso è bene fare molta attenzione perchè non ci sarebbe nessuna garanzia per chi acquista. Quindi, se il nostro venditore non accetta un bonifico internazionale, non resta che il pagamento in contanti e, per fare questo, o conoscete qualcuno in loco oppure non vi resta che contattare una ditta specializzata. Ce ne sono diverse qui in Italia che hanno anche sedi negli Usa e offrono diversi servizi, compresa la verifica del veicolo sul posto etc. Ovviamente, come anticipato, per ogni servizio si paga (in base al tipo di servizio richiesto, ma anche alla strada che devono fare, ad esempio, per andare a vedere il mezzo).
Se, invece, siete riusciti a pagare tramite bonifico ora non resta che contattare una delle suddette ditte che si occuperanno di andare a recuperare il veicolo, fare tutte le pratiche di importazione e organizzare il viaggio in container.
Alcune risposte a domande comuni che ci vengono fatte (e alle quali rispondiamo esclusivamente in base alla nostra esperienza):
⦁ Meglio comprare in Italia/Europa o negli USA?
Dipende dal vostro “grado di coraggio”: la verità è quella. Comprare un bene che ha un costo di qualche migliaia di euro ad una tale distanza senza averlo mai visto non è cosa da tutti. C’è chi preferisce comprare in Italia o al massimo in Europa. Per quel che ci riguarda abbiamo sempre preferito cercare direttamante negli Usa perchè ovviamente la scelta è maggiore e, anche i prezzi, pur sommando i costi di import, sono più bassi proprio per la maggior offerta.
⦁ Dove cercare il veicolo?
Ci sono diversi siti che si occupano di vendita di auto: siti sia di concessionari o venditori veri e propri, sia “motori di ricerca” dove ci sono tanti annunci di privati. Basta avere tanta pazienza e prepararsi a vedere tantissimi annunci. La pazienza è l’arma migliore per trovare quello che si vuole (anche perchè inizialmente possono essere diffidenti nei confronti degli italiani vista la nostra fama all’estero e la distanza). Ed è sempre meglio avere le idee chiare su quello che si cerca e concentrarsi su un preciso modello per evitare di essere sommersi dalle informazioni.
⦁ Cosa devo verificare quando ho trovato il veicolo?
La prima cosa in assoluto da verificare è che la macchina abbia il suo ” title” che corrisponde al nostro certificato di proprietà. Senza quello meglio lasciar perdere. Poi meglio verificare che sia “matching numbers” ovvero che numeri di telaio, motore e cambio corrispondano a quanto riportato sul title e alle caratteristiche originali del veicolo. Da ultimo, se si sta cercando un veicolo da restaurare, più sono completi meglio è, soprattutto per quei veicoli che sono rari e si fa maggiore fatica a reperire i ricambi.
⦁ In quale zona degli Usa cercare?
Di base la ricerca è aperta a tutti gli Stati Uniti, certo sarebbe sempre meglio cercare in primis in quegli stati dal clima favorevole (caldo e asciutto come in Taxas, California, Arizona) di modo che la macchina presenti prevalentemente ruggine superficiale e non abbia subito gravi danni dall’umidità. Un altro punto da tenere a mente è che più la macchina sarà già vicina ad un porto di partenza, ad esempio Houston, meno costi di trasporto via terra dovremo sostenere. Più ci si addentra nel centro degli States e più le distanze diventeranno impegnative e costose per far recapitare la macchina in porto. Da ultimo, meglio cercare sulla costa “verso di noi”, perchè il tragitto via nave sarà più breve e anche i costi più contenuti.
⦁ Chi si occupa di tutti i documenti?
Se ne occupano le agenzie di importazione; saranno loro a disbrigare tutte le pratiche per il viaggio e per l’importazione una volta arrivata in Europa. Sarà nostra premura controllare una volta arrivata di avere i tre documenti che serviranno per l’immatricolazione, ovvero il title di cui abbiamo parlato prima, la fattura di acquisto e la bolla doganale.
Per concludere: la nostra esperienza di acquisto all’estero è stata favorevole in entrambi i casi, ma ognuno di noi deve decidere in base al proprio carattere, al livello di ansia e al budget come preferisce procedere nella ricerca.
Quando abbiamo acquistato la macchina ci siamo subito resi conto delle pessime condizioni in cui versava ed eravamo consapevoli che il lavoro sarebbe stato molto lungo. Le foto viste prima dell’acquisto mostravano evidenti segni di ruggine su tutta la superficie della macchina (soprattutto nella parte inferiore), ma non “passante” se non in alcuni punti tipici per le auto americane (sottoporta, pianale lato guidatore, parafanghi posteriori).
Sulla scocca, in particolare, erano evidenti alcuni punti in cui la ruggine aveva eroso il materiale ed andavano sostituiti con lamierati nuovi o rifatti ad hoc.
Quando l’abbiamo vista dal vivo la realtà ha confermato quando le immagini ci avevano già anticipato; il telaio era praticamente perfetto, mentre la scocca presentava i classici problemi del pianale (perché sotto la moquette del pavimento tende a ristagnare umidità e con il tempo le lamiere vengono irrimediabilmente danneggiate e devono essere sostituite). Stesso discorso per i parafanghi posteriori, gravemente consumati dalla ruggine a causa del fango che negli anni si è depositato al loro interno, essendo la Tbird a trazione posteriore. Anche i sottoporta andavano sostituiti.
Per quel che riguarda la scocca abbiamo deciso di affidarla ad una carrozzeria, non avendo noi alcuna esperienza in materia e, soprattutto, non avendo l’attrezzatura necessaria alla verniciatura (come il forno, fondamentale per la buona riuscita dell’operazione).
Un enorme vantaggio per quest’auto sta nel fatto che online è possibile reperire tutti i lamierati pretagliati per sostituire quelli danneggiati, evitando così un lungo lavoro di ricostruzione. Non per questo il lavoro è stato agevole: dopo aver sostituito i pannelli, l’intera scocca è stata stuccata, levigata e preparata per la verniciatura.
Dopo aver dato il fondo si è optato per mantenere il colore originale, un verde pastello a base opaca rifinito da più mani di lucido: si tratta del “sage green”, o verde salvia, che fu utilizzato solamente nel 1956 e per meno del 4% del totale delle autovetture prodotte in quell’anno; pertanto si tratta di un colore che può piacere o meno, ma che sicuramente rimanda all’immaginario delle auto americane anni ’50 con i loro colori originali e sgargianti.
Il telaio è stato compito nostro: sono stati rimossi tutti i componenti che erano ancora presenti su di esso ed è stato riportato a “nudo” tramite sabbiatura. Ci siamo dotati di tutte le attrezzature necessarie (sabbiatrice, compressore sufficientemente grande da consentire un lavoro del genere, materiali di consumo vari, pistole per verniciare professionali e molto altro ancora!) e di tanta volontà e abbiamo cominciato il lavoro.
Una volta portato a nudo il telaio l’abbiamo sabbiato: sono stati due giorni veramente estenuanti, ma dopo quasi 16 ore di sabbiatura accurata ogni traccia di ruggine era finalmente scomparsa, anche dai punti meno visibili ed inaccessibili. Questo per evitare che col tempo, la ruggine rimasta, potesse creare nuovamente problemi.
Abbiamo dovuto ripristinare una piccola sezione di circa 20 cm di telaio, precisamente dove era situato l’attacco della balestra destra, perché col tempo il metallo si era deformato e sfogliato. E’ stato usato metallo dello stesso spessore dell’originale, e sono state accuratamente ricreate le varie curvature e sovrapposizioni dello stesso fino ad ottenere un risultato che ricreasse esattamente l’originale.
Solamente a quel punto è stato possibile procedere con la verniciatura; prima di tutto una consistente mano di fondo antiruggine e subito dopo diverse mani di vernice nera lucida specifica da carrozzeria, così da ottenere un risultato perfetto e duraturo.
Il telaio è tornato al suo aspetto originario, sia per quel che riguarda il lato estetico, sia di funzionalità.
Dopo aver rimontato sul telaio tutte le componenti che erano state smontate (e sfruttando lo spazio che offre lavorare su un telaio senza scocca), il blocco motore ed il cambio, scocca e telaio erano pronti per essere nuovamente uniti.
Abbiamo optato per verniciare inizialmente solo il fondo della scocca: una volta asciugata è stata nuovamente fissata al telaio nella sua posizione originaria, con tamponi nuovi; solo a questo punto, la parte superiore è stata verniciata.
Con scocca e telaio verniciati ora la macchina era pronta per essere nuovamente rimontata in ogni suo componente ponendo particolare cura a non rovinare il lavoro di verniciatura appena fatto.
The 1956 Thunderbird’s dash is made of metal simply covered with vinyl that is glued directly on it without any kind stuffing. The metal is prepared with antirust paint. Only in 1957 the dash deeply changed and it has a stuffing to protect passengers. As regards our dash we just needed to restore the metal panel and then to bring it to an upholsterer in order to be covered by the vinyl.
The vinyl is of the original colour, sage green, like all the other interiors; vinyl too is the correct material since leather wasn’t used in that car.
In the dash there are the various instruments of the car that are all original; no one has been changed but every single instrument has been restored and brought back to its original aspect and function.
As regards odometer and speedometer we have checked their status. We have disassembled and cleaned them both, then painted again. Front glasses were ok so we just cleaned them.
The real challenge consisted in restoring the underdash wiring: we have decided to keep the original one which was still in pretty good conditions. Before disassembling it we have taken many pics and videos how the various connections; we have also bought the original wiring manual. It was impossible to check the wiring of that car without the manual. Even if wirings of that time were quite simple as compared to the modern ones some wirings and connections have been gnawed by mice during the years and were incomplete or complete lacking.
After disassembling the wiring we have cleaned it, checked it carefully and reconnected. Then we have positioned it again under the dash. Fortunetely everything worked perfectly.
One particularity of that dash: it had already back lighting that could be regulated in its intensity!